Facciamo il sapone con i makers

sapone marsiglia

La chimica ci circonda e ci aiuta nella vita di tutti i giorni, anche quando facciamo le pulizie. In questa pagina otteniamo il sapone partendo da prodotti di scarto e scopriamo qualche curiosità su questa sostanza miracolosa.

Storia

Le prime fonti dell’invenzione del sapone risalgono al 2200 a.C. Su una tavoletta babilonese si descrive la procedura per ottenere il sapone unendo acqua, sostanze alcaline e olio.

La prima sostanza alcalina o basica prodotta per la saponificazione è la potassa (idrossido di potassio) che veniva ottenuta bollendo la cenere in acqua. La soda (idrossido di sodio) veniva invece prodotta bollendo la cenere della salicornia una pianta ricca di sodio.

In Egitto l’uso del sapone per la pulizia dei tessuti risale al 1550 a.C. , fatto testimoniato dal papiro di Ebers.
Il sapone non veniva usato per la pulizia personale dagli egizi perché era troppo aggressivo, le giuste proporzioni per ottenere un sapone adatto alla pelle vengono scoperta dagli arabi.

Anche i romani conoscevano il sapone anche se preferivano usare altre tecniche per la pulizia personale. Plinio il vecchio descrive in Historia Naturalis un metodo che usavano i galli per pulire i capelli con un prodotto ottenuto dal sego (grasso animale) e calce.

Il sapone viene importato in Europa dai mercanti genovesi e veneziani ed era considerato un bene di lusso molto raro e difficile da ottenere. I primi prodotti ottenuti da grasso animale erano maleodoranti e vennero subito rimpiazzati da oli vegetali profumati.

Durante il medioevo i maggiori produttori di sapone sono Savona e Marsiglia. Ancora oggi esiste il sapone di Marsiglia preparato da olio di oliva, soda caustica, acqua e sale.

Gli inventori del sapone per uso personale furono gli arabi, con prodotti profumati che potevano essere solidi o liquidi e di diversi colori.

Il sapone di Aleppo è prodotto con olio di oliva, timo e alloro con soda caustica. L’olio di alloro produce un sapone più schiumoso.

Chimica del sapone

Il sapone è un sale di metalli alcalini (sodio, potassio, litio, ecc…) e di un acido grasso. Nei saponi di origine naturale si parte da oli vegetali o da grasso animale e da basi forti (soda o potassa caustica).

La base forte in ambiente acquoso idrolizza i trigliceridi degli oli vegetali o dei grassi producendo un alcol detto glicerolo (o glicerina) e un sale. In parole povere la base rompe i trigliceridi in catene di acidi grassi per poi neutralizzarle.

saponificazione

I grassi e gli oli sono composti da diversi tipi di trigliceridi che influiscono in maniera differente sulle proprietà chimiche e fisiche del prodotto finale. L’olio di oliva ha una grande quantità di acido oleico nei propri trigliceridi, ma contiene anche acido palmitico, stearico e linoleico.

Anche il tipo di metallo alcalino usato nella saponificazione influisce sulle proprietà del prodotto finale. I saponi di litio e sodio sono più duri rispetto a quelli ottenuti con il potassio (generalmente liquidi) mentre i saponi di altri metalli (calcio, rame, magnesio, ecc…) sono insolubili in acqua.

molecola di sapone
oleato di sodio

La molecola di sale ottenuta nella reazione di saponificazione è formata da due parti: una testa polare (idrofila), e una coda apolare (idrofoba).

La testa della molecola che contiene le cariche di segno opposto è affine all’acqua mentre la coda senza cariche derivante dall’acido grasso è affine alle sostanze organiche apolari (oli, grassi, ecc…) e non all’acqua.

sapone sull'acqua

La molecola di sapone perciò ha una doppia natura, ha una testa che si lega a sostanze polari ed una coda che si lega a sostanze apolari. Questo tipo di molecole si dicono antifiliche e fanno da ponte tra sostanze di natura opposta (acqua e olio).

Il sapone ad una certa concentrazione si dispone con la testa polare rivolta verso l’acqua e la coda a contatto con l’aria.

formazione di micelle

Appena una sostanza apolare (grasso, olio, sporcizia, ecc…) tocca le code si lega e forma un guscio di molecole di sapone detta micella. Le micelle sono libere di muoversi dentro l’acqua perché la loro parte esterna è polare e contengono al loro interno lo sporco.

Una volta intrappolate le sostanze apolari dentro le micelle, si possono sciacquare via con facilità usando l’acqua.

Questo meccanismo imita il passaggio di sostanze attraverso le membrane delle cellule che sono composte da molecole (fosfolipidi) don la stessa “forma” del sapone .

Il sapone interagisce con il fluido in cui si trova perciò ne modifica le proprietà, una di queste è la tensione superficiale. Per questo motivo le molecole del sapone vengono chiamate tensioattivi.

Saponi nell’arte e nei mestieri*

Esistono varie tipologie di sapone prodotte nell’arco della storia dell’uomo e ne esisteranno molti altri in futuro. Il sapone di Marsiglia usato per il bucato è un esempio di un prodotto solubile in acqua, in particolare un oleato di sodio.

I saponi a base di metalli differenti dal sodio e dal potassio che sono addirittura insolubili in acqua (come gli oleati di rame, calcio e litio) possono sembrare inutili e bizzarre, ma in realtà trovano diversi impieghi nel mondo dell’arte e della meccanica.

Nei dipinti ad olio si formano spontaneamente saponi metallici; in molti di essi i restauratori hanno notato dei piccoli granelli simili all’acne sulla superficie della pittura.

Questa “malattia” nasce dalla reazione chimica tra gli acidi grassi usati come leganti e i pigmenti metallici, solitamente sono ossidi di piombo e zinco. Questi saponi si aggregano e si accumulano scrostando la vernice dalla tela del dipinto.

Il sapone però non è solo una sostanza dannosa nel mondo dell’arte. Le saponette possono essere prodotte con diversi colori, fantasie e forme dando la possibilità all’artista di esprimere le proprie idee.

sculture di sapone

Molti manufatti artistici vengono incisi artigianalmente partendo da blocchi di sapone, impiegando solo scalpelli e coltelli. Fiori, foglie ed altri oggetti possono essere inglobati in blocchi di sapone trasparente ed essere preservati per lungo tempo.

I saponi di calce trovano impiego nel mastice usato dai vetrai, molto resistente al calore e ottimo per immobilizzare il vetro.

Facciamo il sapone

Per preparare il sapone abbiamo bisogno di:

  • olio
  • idrossido di sodio NaOH
  • agitatore magnetico riscaldante

Per ogni grammo di olio bisogna aggiungere 0.140 g di idrossido di sodio.

Per esempio usiamo 75 g di olio di recupero e 10.5 g di soda caustica.

È importante sciogliere la soda caustica nel minor quantitativo di acqua distillata facendo molta attenzione a dissipare il calore prodotto dalla reazione esotermica.

Scaldiamo l’olio ad una temperatura di 50°C mescolando costantemente e aggiungiamo a filo la soluzione concentrata di idrossido di sodio. Durante questo passaggio non bisogna usare fiamme libere (es. fornelli, bunsen, ecc…) perché l’olio a contatto con la soluzione acquosa potrebbe schizzare ed incendiarsi.

Si forma una dispersione di piccole goccioline dentro le quali avviene la reazione di saponificazione.

L’emulsione formata si mantiene stabile se la quantità di acqua non è eccessiva e l’agitazione è molto vigorosa.

Mescoliamo vigorosamente per almeno 30 minuti fino ad una consistenza cremosa del composto. Si può lavare il sapone ottenuto con almeno tre lavaggi con una soluzione di NaCl satura.

Far stagionare il sapone per almeno 40 giorni in stampi per permettere l’essiccazione e il completamento della reazione.

Bibliografia

Scientific soapmaking – The chemistry of the cold process di Kevin M.Dunn – Clavicula press, Farmville, VA

Soap manufacturing technology – Luis Spitz editor – AOC Press, Urbana, Illinois

Trattato compiuto di Farmacia teorica e pratica. Quarta edizione …, Volume 2
By Julien Joseph Virey

*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.

Davide Di Stasio
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Il gatto è vivo o morto? Non ci importa!

Il gatto è vivo o morto? Non ci importa!

Cercare di capire se il gatto è vivo o morto non è la priorità della meccanica quantistica, perciò non preoccuparti troppo per la vita del gatto e affronta questo viaggio attraverso le basi della meccanica quantistica con noi Makers.

Introduzione*

La meccanica quantistica è circondata da un alone di mistero e da una miriade di aneddoti molto famosi. Potrà sembrarti una materia mistica e inarrivabile, utilizzata per imprese fantascientifiche come il teletrasporto e i super-computer quantistici ma in realtà la meccanica quantistica ha origini più “umili” che ti spieghiamo QUI.

Questa disciplina è utilizzata molto non solo in fisica ma anche in chimica. La spettroscopia utilizza molti modelli e approssimazioni quantistiche per studiare l’interazione tra la radiazione elettromagnetica e la materia a livello atomico e molecolare. La composizione dei corpi celesti e la scoperta di nuove molecole non presenti sulla terra tramite l’astrochimica si spiegano solo attraverso la meccanica quantistica.

Interpretazione di Copenaghen

Esistono diverse interpretazioni della meccanica quantistica, la prima proposta e più diffusa è l’interpretazione di Copenaghen.
Alcuni pilastri di tale interpretazione comunemente accettati sono:

1. La meccanica quantistica è intrinsecamente probabilistica e non deterministica
2. I risultati della meccanica quantistica devono ridursi a quelli della meccanica classica nelle condizioni in cui i risultati classici siano attendibili. (PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA)
3. La funzione d’onda restituisce delle probabilità (ottenibili con la legge di Born) per i risultati delle misurazioni eseguite sul sistema.
4. Non si può osservare contemporaneamente la duplice natura dei fenomeni atomici (es. onda/particella) durante lo stesso esperimento. (PRINCIPIO DI COMPLEMENTARITÀ)

Non spaventarti se nel prossimo capitolo vedrai operazioni matematiche e concetti di algebra lineare che non conosci, l’importante è cogliere l’idea di base.

Postulati della meccanica quantistica

Passiamo ora ai postulati che costituiscono la base della meccanica quantistica sui quali si sono basate tutte le scoperte e teorie oggi in uso.

stati quantici e funzioni d’onda:

Lo stato di un sistema è descritto dalla funzione d’onda Ψ(r1,r2,…,t). Il termine “descritto” significa che la funzione d’onda contiene tutte le informazioni sulle proprietà del sistema descrivibili sperimentalmente.

-operatori

Le osservabili (grandezze ricavabili sperimentalmente) sono rappresentate da operatori hermitiani che devono soddisfare le regole di commutazione:

q e q’ indicano due diverse coordinate spaziali (es. x, y, z…) e pq quantità di moto (m*v) sulla rispettiva coordinata q. δqq’ è la delta di Kronecker.


Gli operatori Ô sono hermitiani perciò garantiscono che le osservabili siano numeri reali.

CAPIAMOCI MEGLIO
*Gli operatori possono essere visti come funzioni che agiscono su spazi lineari rappresentabili tramite le matrici.
*Il commutatore è un’operazione matematica molto semplice definita nel seguente modo: [A,B] = (A*B) – (B*A)


-valore d’aspettazione e osservabili

Il valore medio dell’osservabile in una serie di esperimenti associata ad un operatore Ô è pari al valore d’aspettazione ⟨Ô⟩

Se la funzione d’onda è un’ autofunzione dell’operatore Ô applicato allora il valore d’aspettazione coincide con l’autovalore “o” associato a tale operatore.

In tutti gli altri casi la funzione d’onda può essere espressa come combinazione lineare di autofunzioni dell’operatore (PRINCIPIO DI SOVRAPPOSIZIONE).

CAPIAMOCI MEGLIO
*La strana notazione con i simboli “maggiore e minore” è la notazione di Dirac o bra-ket ed è usata per “risparmiare tempo durante i calcoli”. È una notazione molto compatta e maneggevole che permette in molti casi di tralasciare simboli come quelli degli integrali.
*Se si misura il sistema la funzione d’onda che lo rappresenta collassa in una delle possibili autofunzioni che la compongono. (COLLASSO DELLA FUNZIONE D’ONDA) Questo “fenomeno” ha lo sconcertante significato (dal punto di vista classico) che una funzione che prima della misura era la sovrapposizione di molteplici autostati, di colpo si riduce ad uno solo!!!
*Schrödinger inventa il paradosso del “gatto vivo o morto” per criticare il principio di sovrapposizione, uno dei cardini dell’interpretazione di Copenaghen.

-interpretazione di Born

La densità di probabilità che una particella sia trovata in un dato volume in un dato punto dello spazio è proporzionale al quadrato della funzione d’onda, inoltre la densità di probabilità della particella in tutto lo spazio è pari a 1.

-equazione di Schrödinger (operatore evoluzione temporale)

L’evoluzione nel tempo della funzione d’onda Ψ(r1,r2,…,t) si descrive tramite l’equazione di Schrödinger ( lo scienziato del paradosso del gatto vivo o morto)

E una equazione agli autovalori in cui l’operatore hamiltoniano Ĥ descrive l’energia totale del sistema.

MODELLI

-PARTICELLA NELLA SCATOLA MONODIMENSIONALE

La risoluzione più semplice dell’equazione di Schrödinger è quella della particella nella scatola.
Essa riguarda una particella posta in una scatola monodimensionale, la quale non potrà muoversi liberamente, ma potrà assumere posizioni comprese tra 0 e L (in cui L è la lunghezza della scatola).

Al di fuori delle pareti della scatola la particella assume valori di potenziale infiniti, mentre all’interno di essa sarà nullo.
L’equazione di Schrödinger all’interno della scatola sarà uguale a quella precedentemente presentata, riferita alla particella libera. Tuttavia, non tutte le soluzioni saranno accettabili.

Per fare in modo che vengano rispettate le condizioni al contorno e la condizione di normalizzazione, la funzione non potrà assumere tutti i valori possibili di R.
Si può dimostrare, quindi, che i livelli energetici possibili per una particella nella scatola sono dipendenti da n e dalla sua funzione d’onda corrispondente.
Ossia l’energia che la particella nella scatola può assumere sarà quantizzata.
Essa potrà assumere solo valori discreti di energia, detti LIVELLI ENERGETICI.

Puoi estendere questo modello su più dimensioni rendendo la scatola bidimensionale, tridimensionale, ecc… e la forma della scatola può essere modificata passando ad anelli e sfere. Dai un’occhiata QUI.

Applicazioni della particella nella scatola

Il modello della particella nella scatola si usa in chimica per studiare gli elettroni di molecole con doppi legami coniugati. L’elettrone può essere paragonato ad una particella confinata in una scatola della dimensione del sistema coniugato (evidenziato in figura), ciò ti permette di prevedere le proprietà ottiche (come il colore assunto dalla molecola considerata) attraverso semplici calcoli. Se non l’hai ancora fatto dai un’occhiata alle proprietà ottiche della curcumina.

CAROTENE

È possibile calcolare per esempio la lunghezza d’onda della luce assorbita dal carotene che corrisponde al salto dell’elettrone tra due livelli energetici consecutivi ben precisi. Questi livelli sono N/2 e (N/2)+1 dove N è il numero totale di atomi del sistema coniugato. Considerando N (22 atomi di carbonio del sistema coniugato), m la massa dell’elettrone (9,11*10-31 Kg) e l la lunghezza media del legame chimico (1*10-10 m)

La lunghezza d’onda (misurata sperimentalmente) assorbita dalla molecola di carotene è 480 nm(blu-verde) cioè di colore complementare all’arancione.
Con il modello della particella nella scatola si ottiene ottiene 632 nm che è diverso dal valore sperimentale di 1,3 volte. Questo accade perché con l’applicazione del modello su molecole reali si trascurano molte altre interazioni fra i vari elettroni che si trovano nel sistema elettronico. I calcoli perciò forniscono un dato indicativo. Puoi ripetere i calcoli cambiando N a seconda della dimensione del sistema di doppi legami coniugati scoprendo quale radiazione interagisce con la molecola di tuo interesse, ricordati di valutare l’errore di 1,3-2 volte.

-OSCILLATORE ARMONICO

Introduciamo ora l’oscillatore armonico!
Il modello fisico di questo oscillatore è composto da due masse collegate l’una all’altra da una molla.

Nel caso monodimensionale la forza elastica è prodotta dallo scostamento della massa  dal punto di equilibrio ed è espressa come

Dato che la forza che agisce sulla particella corrisponde a 

Ne consegue che l’energia potenziale dipenderà da x secondo la seguente relazione

assumerà cioè una forma parabolica, con potenziale nullo per  x=0 

Alla stregua della particella nella scatola, risolvendo l’equazione di Schrödinger, risulterà

Dalla risoluzione dell’equazione, si ricava che l’energia dell’oscillatore armonico sarà quantizzata, quindi assumerà valori discreti, pari a 

con v = 1, 2, 3, … e μ la massa ridotta.
All’aumentare di ν la funzione d’onda risulta più ampia ai bordi, inoltre a differenza della particella nella scatola (in cui il parametro n parte da 1) il parametro v parte dal valore 0 e restituisce un’energia chiamata energia di punto zero.

Applicazioni dell’oscillatore armonico

La spettroscopia vibrazionale studia i moti vibrazionali delle molecole e si basa sul modello dell’oscillatore armonico. Data una determinata molecola puoi calcolare la “forza” del legame chimico che unisce gli atomi. Prendiamo ad esempio la molecola di acido cloridrico e determiniamo la costante di forza elastica del legame. Leggendo lo spettro infrarosso dell’acido cloridrico determiniamo la frequenza della banda Q (spazio centrale vuoto dello spettro vibro-rotazionale) 2990 cm-1.

Considerando le masse di H e Cl rispettivamente 1 uma e 35 uma si calcola μ la massa ridotta dell’oscillatore.


La costante elastica si ricava con la formula inversa della frequenza dell’oscillatore armonico

Nota che la costante elastica del legame chimico che forma la molecola di acido cloridrico HCl è elevata. Ora sei in grado anche tu di calcolare la “forza” dei legami chimici partendo dalle frequenze di vibrazione lette sugli spettri vibrazionali. Se vuoi anche identificare i composti organici incogniti dallo spettro leggi la nostra pagina sulla spettroscopia infrarossa.

Il gatto è vivo o morto?

Se sei arrivato/a fino a questo punto e ti stai ancora domandando se il gatto è vivo o morto ti lasciamo un link per toglierti tutti i dubbi.

Curiosità

-Il modello della particella nella scatola si usa anche per studiare nuclei atomici, atomi, molecole e quantum dots.
-se vuoi sapere quali molecole ci sono nello spazio clicca QUI

“Le idee audaci e ambiziose degli anticonformisti hanno sempre rappresentato le pietre miliari del progresso scientifico”

J.M.Jauch

Con questo noi makers speriamo di avervi incuriositi e di avervi dato le basi per approfondire la meccanica quantistica senza alcun timore.

Makers ITIS Forlì: https://www.makers-itis-forli.it 

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Davide Di Stasio
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Cos’è la plastica?

Cos’è la plastica?

Una plastica è un materiale costituito da polimeri, ossia molecole molto “grandi”. Queste molecole possono essere assimilate a una catena di molecole più piccole, dette monomeri. Un qualsiasi materiale plastico può essere rappresentato da una catena di monomeri e a seconda degli elementi che la compongono e della loro disposizione si definisce un diverso materiale.

Da sinistra: Carta, Vetro, Materiali Plastici, Rifiuti Non Riciclabili

Cos’è la plastica? E perché va a finire tutto nello stesso bidone?

Ci hanno sempre detto di mettere la plastica in un contenitore apposito, senza carta, vetro, o altri materiali anche se a volte la buttiamo insieme ai metalli. Quindi il perché venga buttato insieme ai metalli dipende dagli impianti di separazione dei singoli enti di raccolta. La si separa da altri materiali perché,  come in molti già sapranno, la si vuole riciclare. Ma viene davvero riciclata?

Dipende cosa si intende con riciclo.

Verrà riciclata tutta questa plastica?

In un mondo perfetto saremmo in grado di trasformare in un nuovo prodotto circa l’80% della plastica con cui entriamo in contatto giornalmente.
Se si vuole sfruttare ulteriormente la rimanente dovrebbe essere bruciata per ottenere altra energia con però tutte le conseguenze di inquinamento dovute alla combustione.

Nel mondo in cui viviamo la plastica effettivamente riciclata è molto poca. In Italia ce la caviamo abbastanza bene rispetto al resto di Europa e ancora meglio rispetto al resto del mondo. In Italia si riesce a riciclare quasi il 50% della plastica che viene ritirata dai centri urbani… A pensarci bene però non è un valore così elevato. Questo perché si intende il 50% degli imballaggi di cibi o oggetti comuni e non dei materiali che costituiscono i giochi per bambini, palloni, calzature, pennarelli e tutti gli scarti di produzione che difficilmente vengono riciclati, al massimo bruciati per semplicità.

Per chiarire ciò bisogna definire i tipi di plastica. I principali materiali che definiamo “plastica” con cui entriamo in contatto sono i materiali termoplastici e materiali termoindurenti.

I primi sono quei materiali che riusciremmo a riciclare senza grossi problemi. Questi si degradano relativamente poco. Per poterli riciclare più facilmente vengono ulteriormente catalogati.

Classificazione termoplastiche per alimenti

Forse vi saranno noti i simboli qui sopra, o forse no… Questi sono dei simboli usati a livello internazionale per indentificare alcuni tipi di materiali termoplastici usati prevalentemente con gli alimenti. Sono usati per bottiglie di plastica, contenitori di saponi, sacchetti di patatine o copertura di cioccolatini.

Il simbolo con le tre frecce identifica il fatto che il materiale è riciclabile (è presente anche su prodotti di carta, vetro e alluminio). Il numero all’interno rappresenta il materiale specifico anche se il numero 7 identifica molti tipi di polimeri. Nel 50% di plastica riciclata in Italia citata prima sono inclusi quasi esclusivamente il numero 1 (di cui fanno parte la maggior parte delle bottiglie di bevande) e il numero 2 (che include i flaconi di detersivi) perché sono i materiali che vengono maggiormente usati. In realtà, il polimero identificato dal numero 1, il PET, non è il massimo da riciclare in quanto questa termoplastica si degrada nel tempo.

Nel numero 7 spesso sono inclusi materiali molto comuni ma usati poco per alimenti, ad esempio l’ABS. L’ABS è un materiale usatissimo per i giochi, infatti i Lego, i mattoncini colorati, sono fatti in ABS. Nonostante il suo largo uso viene riciclato pochissimo.

Esistono tanti altre termoplastica ma una che è diventata famosa ultimamente per essere compostabile merita di essere citata: il PLA (acido polilattico).  Anche se definito compostabile, cioè trasformabile in compost così che possa “dissolversi” in atmosfera naturalmente, non si riesce a sfruttare questa sua caratteristica. Esistono pochissimi impianti in Europa in grado di “compostare” il PLA però nelle confezioni dei nostri prodotti come piatti, bicchieri o posate c’è scritto di buttarlo nell’umido. Questo materiale è dannoso per una raccolta dell’umido in quanto se non si eseguono i processi giusti il PLA si comporterà come una normale plastica e non si degraderà. Anche se buttato nella plastica arreca danno alla linea di riciclo a causa della sue proprietà abbastanza differenti da altre termoplastica. La cosa corretta da fare sarebbe cestinare questo prodotto nell’indifferenziata.

L’altra categoria principale di materiali con cui entriamo in contatto sono i materiali termoindurenti. A noi possono apparire simili alle termoplastiche ma hanno caratteristiche differenti. In particolare questi materiali sono paragonabili al pane: si crea un composto e lo si cuoce. Ovviamente il processo di realizzazione di questi materiali non è così semplice in quanto per la loro formazione sono necessarie temperature e pressioni ben precise. La similitudine col pane serve per capire che se prendessi questo materiale e lo riscaldassi sperando di scioglierlo come si farebbe con una termoplastica ne rimarrei deluso perché un materiale termoindurente si brucerebbe.

Con questi materiali si fanno parti che devo resistere ad alte temperature o che necessitano di proprietà meccaniche particolari come utensili per la cucina o componenti di veicoli.

I nostri utensili

I materiali termoplastici, come già detto, possono essere riutilizzati, basta scaldarli e darli nuova forma, anche se questo non sempre avviene; mentre i materiali termoindurenti non possono essere riciclati.

Forse qualcuno si chiederà: il resto della plastica non riciclata che fine fa?

Questa in gran parte viene dispersa o bruciata per creare nuova energia.

La dispersione di materiale non dovrebbe nemmeno essere contemplata perché causa inquinamento dei mari e delle terre provocando un grosso impatto sulla flora e la fauna.
La combustione può essere una valida alternativa per quei materiali che non possono essere riutilizzati in alcun modo. La plastica, oltre ad essere un materiale molto versatile è in grado di sprigionare una quantità di energia superiore a molti idrocarburi in seguito alla combustione.

Quindi, cos’è la plastica?
Riassumendo si può dire che sia un’insieme di materiali, ad alto contenuto energetico (motivo per cui viene anche bruciata), caratterizzata da una struttura chimica di polimeri.

Con il tempo è sempre di più la plastica che viene riciclata anche se a fatica perché per poter elaborare e trasformare la plastica ci vuole una discreta quantità di energia e questo rende il processo relativamente costoso.

Esistono altri tipi di polimeri che spesso definiamo plastica come siliconi, resine o altri materiali che sono più rari da incontrare, ma il loro trattamento per l’eventuale riutilizzo è un po’ più complesso.

Questo articolo voleva dare qualche spunto per informarsi di più su ciò che definiamo plastica. Si potrebbe approfondire riguardo le tonnellate di platica che viene buttata in bidoni diversi da quelli a loro dedicati o di tutta quella plastica negli oceani che presto sarà un tutt’uno con la terra ferma, ma spero che qualcuno cerchi di usare la plastica in modo più responsabile e la getti nel bidone apposito con la speranza che venga riciclata correttamente.

 

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Fonti

Documento OCSA (2018)
Ispra

Le meraviglie del mondo microscopico

Le meraviglie del mondo microscopico

La natura riserva fantastiche sorprese e ottimi spunti per migliorare la tecnologia che sfruttiamo ogni giorno. Gli animali e le piante durante l’evoluzione hanno sviluppato strategie e meccanismi ingegnosi per adattarsi all’ambiente e sopravvivere. Gli scienziati e gli ingegneri studiano scrupolosamente la natura per carpire i suoi segreti così da migliorare la nostra vita. Non preoccuparti perciò se quello che stiamo per mostrarti noi makers* ti sembrerà surreale ma approfitta di questi esempi per apprezzare le meraviglie del mondo microscopico.

Addome delle lucciole

Le lucciole sfruttano la bioluminescenza per comunicare tra loro e già questo fenomeno le rende degli animali interessanti in ambito chimico e biologico ma noi makers vogliamo mostrarti un’altra particolarità.

L’addome delle lucciole è composto da tante micro scaglie che permettono di diffondere la luce prodotta ad angoli di illuminazione più ampi e più efficientemente. Questi miglioramenti sono dovuti alla soppressione di due fenomeni ottici principali: la riflessione interna totale e la riflessione di Fresnel.

La struttura asimmetrica delle scaglie e la loro composizione chimica permette di minimizzare gli “sprechi” di luce e quindi di energia. L’implementazione di nano strutture simili a quelle delle lucciole nei LED permette un miglioramento dell’efficienza luminosa e dell’angolo di illuminazione.

Zampa del geco

Le zampe del geco sono di ispirazione per ingegneri e chimici perché riescono ad aderire su tantissimi tipi materiali. I gechi non usano delle secrezioni adesive (bio-colla) per aderire sulle superfici ma sfruttano le interazioni deboli di van der Waals.

Le zampe dei gechi perciò non sono viscide ma sono cosparse di tantissime setole nanoscopiche con un diametro di soli 0.2 micron, 50 volte inferiore a quello di un capello. L’enorme numero di setole presenti sulla zampa che instaurano ciascuna una piccolissima interazione debole permette al geco di rimanere perfettamente ancorato sulle superfici più disparate. L’unico materiale sul quale il geco non riesce ad aderire è il teflon, lo stesso materiale usato per la copertura delle pentole antiaderenti.

Esistono dei particolari tipi di nastro adesivo che non sfruttano uno strato colloso per aderire alle superfici ma sono composti da una superficie piena di nano-setole simili a quelle del geco, questi tipi di nastro adesivo possono essere attaccati e staccati ripetutamente senza perdere il loro potere adesivo.

Foglia di loto

La foglia di loto può sembrare una semplice foglia ma in realtà ha incredibili proprietà idrorepellenti e autopulenti. Le meraviglie di questa foglia erano conosciute in Asia fin dal primo secolo a.C. ma i suoi meccanismi sono stati svelati solo negli anni 70 con l’utilizzo della microscopia a scansione elettronica.

La foglia è coperta da una nano-struttura di cera che minimizza la superficie di contatto con i liquidi permettendo alla tensione superficiale di tenere coeso il fluido in una forma quasi sferica. Tutto il pulviscolo e la sporcizia sulla superficie vengono inglobate nelle gocce d’acqua che scivolando via dalla foglia di loto la mantengono pulita.

In commercio esistono vetri e vernici che sfruttano lo stesso meccanismo della foglia di loto e che presentano proprietà autopulenti.

Con questi esempi noi makers speriamo di avervi incuriositi ed incentivati a scoprire nuove meraviglie del mondo microscopico.

C’è un libro sempre aperto per tutti gli occhi: la natura

Jean-Jacques Rousseau

Riferimenti

-Hong Zhu et al 2018 J. Semicond. 39 011011
-Autumn, K. (2007). Gecko Adhesion: Structure, Function, and Applications. MRS Bulletin, 32(6), 473-478. doi:10.1557/mrs2007.80
-Marmur, A. (2004). The lotus effect: superhydrophobicity and metastability. Langmuir20(9), 3517-3519.

Makers ITIS Forlì: https://www.makers-itis-forli.it 

*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.

Storia della meccanica quantistica

Storia della meccanica quantistica

Ripercorriamo la storia della meccanica quantistica affrontando gli esperimenti, i paradossi e le idee che hanno cambiato il mondo della fisica.

Dal corpo nero al principio di indeterminazione

Cos’è la fisica quantistica? Perché ci appare così oscura? Perché è nata?
Tutto ebbe inizio negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, quando i fisici classici iniziarono ad osservare il mondo microscopico.
Inizialmente tentarono di utilizzare la fisica classica per spiegare i comportamenti delle particelle a livello atomico e subatomico, ma con scarsi risultati.
Essi, infatti si resero conto che, nonostante la fisica newtoniana fosse adatta a descrivere i fenomeni a livello macroscopico, la sua applicazione nel microcosmo causava alcune perplessità.

Lo spettro del corpo nero

Il primo limite dell’approccio classico si deve ai due fisici Rayleigh e Jeans, i quali tentarono un’interpretazione classica dello spettro di emissione del corpo nero.
Quest’ultimo è un oggetto ideale di riferimento in grado di assorbire tutta la radiazione incidente indipendentemente dalla lunghezza d’onda e dalla direzione. Nessuna superficie può emettere più di un corpo nero a temperatura e lunghezza d’onda fissata ed è un emettitore diffuso.

spettro del corpo nero

Negli ultimi anni dell’Ottocento, i due scienziati notarono che la relazione trovata rispecchiava le osservazioni sperimentali* a basse frequenze ma restituiva un risultato paradossale per alte frequenze detto catastrofe ultravioletta ( secondo le leggi della fisica classica la radiazione emessa sarebbe dovuta aumentare con la frequenza ).


A risolvere tale problema fu Planck, il quale teorizzò che gli oscillatori ideali di cui erano composte le pareti del corpo nero non potessero emettere energia in maniera continua, come teorizzato dalla fisica newtoniana.
Egli propose un modello secondo cui l’energia poteva essere emessa solamente in maniera discreta tramite pacchetti “QUANTI” di energia, secondo la legge:

formula di Planck
ritratto Max Planck

Nonostante Max Planck introdusse il concetto della quantizzazione del mondo microscopico, giustificò la sua scelta come un puro espediente per “far tornare i conti” privo di alcun significato fisico

“È solo un artificio matematico”

M.Planck

Effetto fotoelettrico

Ulteriori discrepanze si notarono nell’effetto fotoelettrico.
Esso consiste nella sollecitazione di una lastra metallica mediante luce a una determinata frequenza.

Sperimentalmente si osservò che l’aumento della frequenza aumentava l’energia cinetica degli elettroni espulsi dalla superficie del metallo e l’intensità luminosa ne aumentava solo il numero.

ritratto Albert Einstein

Dunque Einstein, in seguito allo studio di tale fenomeno ipotizzò la quantizzazione della radiazione elettromagnetica!
Secondo tale ipotesi la luce è costituita da particelle dette FOTONI, aventi energia direttamente proporzionale alla frequenza secondo la legge teorizzata da Planck. Per la prima volta l’approccio quantistico si dimostrò essere un valido strumento fisico e non solo un espediente matematico per risolvere i problemi del corpo nero.

Modello atomico di Bohr

L’approccio discreto venne utilizzato anche dallo scienziato Niels Bohr per risolvere il paradosso del modello atomico di Rutherford per il quale l’elettrone collasserebbe sul nucleo centrale di carica opposta perdendo energia attirato per la forza di Coulomb.

ritratto Niels Bohr

Bohr impose la quantizzazione del momento angolare dell’elettrone orbitante attorno al nucleo. Secondo questo nuovo modello atomico gli elettroni giacciono attorno al nucleo solo su precise orbite e per muoversi da una all’altra devono assorbire o emettere una quantità di energia discreta. Le formule ricavate dallo scienziato danese rispecchiavano le formule empiriche di Balmer e Rydberg e spiegavano le osservazioni delle linee di emissione e assorbimento negli spettri.

Il modello di Bohr venne ulteriormente verificato dall’esperimento di Frank ed Hertz che riuscirono a misurare lo scambio energetico tra un fascio di elettroni e atomi di mercurio. Dalle misure eseguite osservarono un preciso valore di energia ceduta dal fascio di elettroni agli atomi di mercurio che corrispondeva ad una precisa transizione tra due orbite atomiche.

Scattering Compton

Il comportamento discreto delle radiazioni elettromagnetiche venne osservato da Arthur Compton attraverso un fenomeno di diffusione (scatterning Compton). Lo scienziato bombardò un bersaglio di grafite con un fascio di raggi X e si rese conto che venivano emessi una certa quantità di raggi X a frequenza minore. La frequenza dei raggi diffusi dal bersaglio era indipendente dalla frequenza della radiazione incidente e questo poteva essere dimostrato solo con un approccio quantistico. Compton immaginò la radiazione formata da particelle che urtando gli elettroni della grafite cedevano parte della propria energia. Dall’interpretazione di questo esperimento nacque il dibattito sulla dualità onda-particella.

Dualismo onda particella dell’elettrone

ritratto Louis De Broglie

Un ulteriore step nel campo della fisica quantistica venne fatto dal fisico francese De Broglie.
Egli propose analogie tra il fascio di elettroni e il fascio di fotoni, studiando il fenomeno della diffrazione di fasci elettronici.
Come ai fotoni si associano onde elettromagnetiche, così alla propagazione di elettroni si è associato un fenomeno ondulatorio.

Fu inoltre in grado di esprimere matematicamente la lunghezza d’onda di tali onde, dette onde di De Broglie:

formula di De Broglie

Equazione di Schroedinger

ritratto Erwin Schrodinger

Data la natura ondulatoria delle particelle, fu necessario introdurre un’equazione per lo studio della meccanica quantistica.
Si tratta dell’equazione di Schrodinger, proposta dall’omonimo fisico nel 1926 (sì, è proprio lo stesso Schrodinger che ha ideato il paradosso del gatto !!!).

Se vuoi approfondire l’argomento e riuscire a risolvere l’equazione di Schrodinger in modo semplice applicandola alla vita di tutti i giorni clicca QUI.


L’equazione completa risulta:

equazione d'onda di Schrodinger

Principio d’indeterminazione

ritratto Werner Heisenberg

La fisica newtoniana, dunque, non era più in grado di spiegare numerosi fenomeni atomici.
Si dovette abbandonare la visione deterministica del microcosmo per accogliere una nuova disciplina in grado di prevedere tali fenomeni.

Il grado di precisione arbitraria e sempre crescente che i fisici classici inseguivano, ben presto venne contestata da un principio che rivoluzionò la storia della meccanica quantistica.

Un importante contributo fu dato da Heisenberg, il quale propose il noto principio di indeterminazione che porta il suo nome:

principio di indeterminazione

Tale formulazione afferma che:


“non si possono misurare contemporaneamente con assoluta precisione le componenti della posizione e della velocità, o meglio della quantità di moto, di una particella di massa molto piccola lungo una direzione”.

W. Heisenberg

Questo principio sconvolse talmente tanto il mondo della fisica che rimase nell’immaginario comune come un simbolo di tale disciplina.

Ciò che ci insegna questo percorso nella storia della meccanica quantistica è di coltivare la nostra immaginazione e continuare ad avere una mente aperta a nuove idee.
Ci sono ancora molti interrogativi da risolvere, che possono sconvolgere tutte le teorie proposte fino ad oggi!

“Non bisogna sottovalutare il valore insostituibile dell’immaginazione e dell’intuizione nella ricerca scientifica. Superando con salti irrazionali il rigido cerchio entro il quale siamo costretti dal ragionamento deduttivo l’intuizione permette le grandi conquiste del pensiero.[…] Per tale ragione la ricerca scientifica è pur sempre un’avventura”

L. de Broglie


La storia della meccanica quantistica continua con molte altre scoperte e teorie entusiasmanti ma noi Makers ci fermiamo qui… per ora.

Curiosi

-La parola FOTONE venne introdotta solo nel 1926 dal chimico-fisico Lewis.
-Quando Niels Bohr vinse il premio Nobel , la Carlsberg lo volle ringraziare regalandogli una casa adiacente al birrificio, con un tubo che spillava birra direttamente in salotto.
J.J.Thomson scoprì l’elettrone come particella, G.P.Thomson (figlio di J.J.Thomson) scoprì le proprietà ondulatorie dell’elettrone. Entrambi vinsero il Nobel per le loro scoperte.
-Il dibattito sul dualismo onda-particella della luce è ancora aperto!
-Il termine “meccanica quantistica” venne usato per la prima volta da Max Born nel 1924.
Il gatto di Schroedinger si può salvare.

*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.

Davide Di Stasio
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Fotografia analogica, i principi chimici per noobs

Fotografia analogica, i principi chimici per noobs

La fotografia analogica, un tuffo nel passato che affascina sempre più giovani curiosi di sperimentare.

In un mondo ormai digitalizzato con gli smartphones sempre a portata di mano, fotografare è diventata un’abitudine per tutti.
La fotografia analogica sembra la scelta contro corrente degli hipster amanti del vintage, eppure sempre più giovani si avventurano in questo tipo di disciplina.

In questo articolo non staremo a disquisire i piaceri nascosti della fotografia analogica (sempre che ce ne siano davvero, bisognerebbe provare!) ma andremo dritti al sodo, per scoprire il piacere della chimica che sta alla base di ciò che per molti aveva del miracoloso: fissare sulla materia un’immagine.

Fotografia analogica, le basi chimiche!

*Click! Hai appena innescato un meccanismo sulla tua macchina fotografica che permetterà alla luce di penetrare all’interno e poter così impressionare la pellicola fotografica.

– Il supporto fotografico (la pellicola)

La pellicola è formata da diversi strati:

fotografia analogica, chimica, pellicola. Bromuro d'Argento

Strato superiore: un’emulsione di sali di alogenuro d’argento (alogeni possibili; cloro, bromo, iodio) sensibili all’esposizione luminosa e dispersi in una gelatina.

Strato inferiore: un supporto in cellulosa trasparente.

In questo esempio si parla di una pellicola bianco e nero, per le pellicole a colori sono necessari ulteriori strati per i pigmenti, rosso, verde e blu.

Arriva il fotone! La luce entra nella macchina fotografica e colpisce lo strato di alogenuro d’argento innescando una reazione a catena.

Prediamo l’esempio del bromuro d’argento AgBr:

Il bromo in forma anionica colpito dalla luce, cede un elettrone all’argento in forma cationica creando nel reticolo cristallino di AgBr alcuni atomi di Ag metallico.

Ag+ Br → Ag+ + Bro + e

Ag+ e → Ago

La struttura chimica ha ormai modificato i suoi equilibri, è stata creata un’immagine latente ancora invisibile. Dopo opportuno sviluppo chimico i punti esposti alla luce diventeranno più scuri.

– Lo sviluppo fotografico

La pellicola una volta esposta ed estratta dalla macchina fotografica (completamente al buio) viene immersa in soluzione chimica riducente. Durante la reazione si produce ulteriore argento metallico con una velocità maggiore nelle aree in cui sono già presenti atomi di metallo. Le aree con più argento metallico saranno visibilmente più scure.

Diventa visibile un’immagine! I cristalli non colpiti dalla luce non subiscono nessuna trasformazione, e restano sensibili alla luce. Andranno perciò eliminati successivamente nel processo finale di fissaggio.

Esistono altri spettri elettromagnetici oltre a quelli visibili, scopri di più in questo articolo: Fotografia ad infrarossi.

– L’arresto

La pellicola (sempre al buio) viene trattata con una soluzione acida che arresta il processo di sviluppo per evitare un eccessivo annerimento.

– Il fissaggio

La pellicola viene trattata con un ultimo reagente che permette di dissolvere l’alogenuro d’argento non reagito.

Il sale d’argento non è solubile in acqua viene così portato in soluzione con un bagno adatto come ad esempio il tiosolfato di sodio.

Una volta effettuati tutti questi processi con i giusti tempi di reazione e aver ben lavato la pellicola dalle sostanze chimiche avremo un negativo stabile che potrà essere esposto alla luce e magari successivamente sviluppato in stampa.

Fonti per approfondire:

Teoria: I processi chimici della fotografia

Pratica: Manuele di fotografia, camera oscura

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Riaccendere una candela a distanza

Riaccendere una candela a distanza

Si può riaccendere una candela a distanza? Sembra una domanda apparentemente sciocca ma che in realtà nasconde una serie di principi fisici e chimici che vi lasceranno a bocca aperta.

Combustione*

Le candele sono una manifestazione della combustione, una reazione chimica di ossidoriduzione tra due componenti: combustibile e comburente. La reazione di combustione è esotermica cioè produce calore, oltre a questo però si produce luce e prodotti di scarto. La reazione di combustione non parte in maniera spontanea perciò necessita di un innesco cioè una fonte di energia. Una volta innescata, questa reazione spontanea procede fino ad esaurire uno dei reagenti (combustibile o comburente).

La combustione è una reazione che ossida il combustibile e riduce il comburente. Se prendiamo come esempio la combustione degli idrocarburi (combustibile) in ossigeno (comburente) otterremo come prodotti l’anidride carbonica (CO2 ) in cui il carbonio è ossidato e l’acqua(H2O) in cui l’ossigeno è ridotto. Una rappresentazione schematica della combustione è il triangolo del fuoco.

Come funzionano le candele

Le candele sono sorgenti luminose formate da un filamento centrale di cotone intrecciato detto stoppino immerso in un combustibile che può essere della cera.
La cera dal punto di vista chimico è un insieme di esteri, acidi saturi e alcoli con catene da 14 a 30 carboni. Sono sostanze che sono malleabili a temperatura ambiente, si sciolgono a 45°C in fluidi a bassa viscosità. Le cere possono essere naturali o artificiali ma rimangono comunque sostanze idrofobe che formano strati idrorepellenti.

Lo stoppino ricoperto di cera viene incendiato, la cera evapora dallo stoppino e insieme all’ossigeno dell’aria alimenta la fiamma producendo luce e calore. Il calore della fiamma scioglie l’estremità superiore della candela che per capillarità mantiene lo stoppino imbibito di combustibile. La cera fusa viene trattenuta sulla parte superiore della candela da uno “scodellino” di cera solida raffreddata dalla corrente ascensionale di aria aspirata dalla fiamma.

Composizione dei fumi delle candele

La composizione dei fumi di una candela cambia con il passare del tempo. Teoricamente una combustione ideale produce acqua e anidride carbonica ma in realtà la reazione di combustione non ossida completamente il combustibile e crea dei sottoprodotti con stato di ossidazione meno elevato.

La combustione continua di una candela forma maggiormente anidride carbonica, vapore acqueo e particelle di sali inorganici. Lo stoppino disperde particelle di sali inorganici molto fini perché è ricoperto di ritardanti di fiamma che servono a far durare di più la candela.

Durante la fase di spegnimento della candela si liberano particelle grandi di materia organica non bruciata e fuliggine. Questo fumo costituisce una miscela potenzialmente infiammabile che sfruttiamo per riaccendere una candela a distanza.

Trasporto delle particelle nel fumo

Tutti i prodotti della combustione della candela sono trasportati verso l’alto dal meccanismo della convezione. La fiamma crea una corrente di aria ascensionale che parte dalla base della candela e si alza verso l’alto. Questa corrente di aria calda si alza perché ha una densità minore dell’aria circostante.
Spegnendo una candela tutte le particelle e la cera vaporizzata sono trasportati dalla corrente di aria calda formando una sorta di scia infiammabile.
Se con un innesco (una fiamma libera di un accendino) incendiamo l’estremità di questa scia, la fiamma incendia l’intera striscia di fumo fino ad arrivare allo stoppino.

Esperimento

Accendiamo una candela e svuotiamo la riserva di cera liquida che si forma alla base dello stoppino. Spegniamo la candela con un soffio deciso dall’alto verso il basso. Avviciniamo una fiamma alla scia di fumo che si sarà formata a pochi centimetri dallo stoppino, se il fumo è abbastanza denso e carico di sostanze infiammabili la fiamma riaccenderà la candela ripercorrendo la striscia di fumo.

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